Felice Bonalumi, 2011

Cinquant’anni e oltre di lavoro, dunque un arco di tempo che copre la qua­si totalità del secondo Novecento, e una grande fedeltà al fare pittura come luogo privilegiato di indagine sulla realtà. In altre parole, come impegno nei confronti di se stesso, della società e, quindi, anche nei nostri confronti che le sue opere guardiamo o, meglio, che sulle sue opere riflettiamo.

Così in estrema sintesi si può riassumere il percorso artistico di Antonio Tonelli e il fare pittura appena indicato significa innanzitutto fedeltà a tele e pennelli quali strumenti di lavoro, a forme, colori, disposizione dei soggetti sulla su­perficie del quadro come punti di riferimento. Insomma, Antonio Tonelli è un pittore che lavora come tradizione vuole e, viene voglia di scrivere, non è poco, men che meno è un’annotazione negativa, ma va sottolineata, consi­derando quanto oggi sia in poca considerazione la tradizione stessa e quanti facili entusiasmi suscitino modi altri e diversi di lavorare.

La conferma viene dai tanti disegni che animano il suo studio, perché spesso i suoi quadri nascono da quella che si può definire una “riflessione pratica”, cioè da una serie di disegni che avvicinano, entrano nel soggetto che vuo­le rappresentare e, prova dopo prova, portano al quadro finito o rimangono come testimonianza di uno stile di lavoro serio e severo.

Lo dico in altro modo: l’impegno di una vita non è mai diventato manifesta­zione di eccentricità, più o meno spinta, più o meno accondiscendente con i gusti, o presunti gusti, del pubblico, ma è sempre stato equilibrata, e non per questo poco profonda, ricerca intorno all’uomo e al suo essere qui sulla terra e al suo guardare altrove.

E con quest’ultima affermazione ho già scoperto, per così dire, le mie carte. Se il compito del critico è di inserire un autore nel suo contesto e di indicare un’“appartenenza”, credo che Antonio Tonelli possa essere considerato un rappresentante del realismo lombardo. Questo mi pare sia l’orizzonte in cui si apre e si sviluppa la sua pittura. Il che significa anche che quanto deve essere valutato non è solo e non è tanto l’aderenza a questa “scuola”, ma semmai lo sviluppo interno, il percorso personale della sua pittura. Perché, e lo scrivo subito, uno sviluppo c’è ed è quanto mai interessante.

Realismo lombardo: assumo questa categoria in senso lato, come pittura sal­damente ancorata al dato reale, visibile, immediatamente comunicabile in quanto immediatamente riconoscibile dal lettore. Dato reale che si snoda in tutte le sue sfumature, bellezza e bruttezza, ricchezza e miseria, male e bene, senza che nulla sia rifiutato a priori. Seguendo la grande lezione di Roberto Longhi, anche il lavoro di Antonio Tonelli si può definire una pittura fatta di corpi, e ricordo che la parola corpo si collega da un lato all’armeno kerp nel senso di forma, immagine, e dall’altro alla radice indo-germanica kar, cioè fare, comporre.

La conquista della figura, dunque, come cifra distintiva della sua arte: e di conquista si tratta. Infatti il primissimo quadro che, quasi riluttante, il Maestro mostra nel suo studio è un materico del 1958 dal titolo Candele al tempietto dell’Annunziata. Frutto della frequentazione prima “clandestina”, in pratica dalla finestra che dava sul ballatoio, e poi ufficiosamente ammesso nello studio di Remo Bianco. Allora Antonio Tonelli, che aveva una quindicina d’anni, non pensava di fare il pittore, ma, comunque sia, lì impara l’amore per la materia, gli acrilici, i polimaterici e indubbiamente la sua pennellata dimostra sempre il rigore della dimensione plastica e l’urgenza di darci la presenza solida, qua­si fisica degli oggetti rappresentati. Nella infinita varietà delle sfumature, sia chiaro, e nella predilezione di tonalità calde con il rosso, il verde e il giallo quali colori prevalenti.


Una pittura di cose

Sta di fatto che, dopo questo primo incontro con la pittura, la virata verso la figurazione è quasi immediata e mai più abbandonata. Con un’altra felice cir­costanza che lo piega definitivamente al lavoro d’artista. Infatti, su insistenza dell’amico pittore e poeta Danilo Pinotti, porta un quadro a una mostra e… l’amico vince il primo premio e Antonio Tonelli il secondo.

Il destino ha segnato la strada, e appartenere alla scuola lombarda significa anche e soprattutto ricercare e creare una propria iconografia personale. Ed è quello che Antonio Tonelli fa con una scelta di campo chiara, a cui rimane fedele e che si può seguire attraverso i cicli pittorici che ne hanno contraddi­stinto le varie stagioni artistiche.

Non voglio lasciare senza la giusta sottolineatura lo svolgersi del lavoro di Antonio Tonelli, non per singoli quadri, ma per cicli pittorici. L’appropriazione della realtà non è mai in lui uni-voca, cioè non è mai ricerca di una caratteri­stica predicabile per l’intera realtà che il pittore, onnisciente o scaltro profeta, ci offre. La realtà è multi-forme e ogni oggetto ha in sé l’intera realtà e una sua particolarità che ci fa da veicolo verso la comprensione o, meglio, verso il nostro tentativo di comprensione. Per questo i particolari sono così importan­ti nei quadri di Antonio Tonelli, ma dicono anche che gli oggetti, in quanto portatori di valori unici, particolari appunto di quell’oggetto, e universali, cioè di tutta la realtà, sono ciò che ci salva dal nichilismo. Antonio Tonelli non ci propone mai una realtà frammentata e senza senso, non cede mai alla lusinga del relativismo come incapacità di decifrazione del reale: all’opposto ci dà una realtà che è qui e ora in quanto composta di oggetti che appaiono e che noi, con tenacia e umiltà, dobbiamo comporre in quel senso ultimo che è ricerca e mai punto di arrivo.

Pittura di cose, dunque, il che ribadisce l’iconografia personale come mo­mento centrale di analisi. Ebbene, anche in questo caso, con assoluta fedeltà Antonio Tonelli propone un’iconografia di cose “minori”, ma mai marginali, di uomini e oggetti che segnano la quotidianità nel senso che lasciano traccia del loro passaggio, di povere cose comuni a tutti o almeno alla stragrande maggioranza di noi.

Un frammento di Eraclito, che cito a memoria, recita più o meno così: “Quale spazzatura gettata a caso, il più bello dei mondi.” Il richiamo a Eraclito, per altro, non è fuorviante perché da un lato Antonio Tonelli propone le cose nel momento in cui sono abbandonate o altro dall’immagine dominante a livello collettivo (ad esempio Composizione campestre del 1963, con un interessante cromatismo verde-azzurro, collage e strappi, in contrapposizione alla città pie­na di luce e di luci), nel momento in cui le cose stesse sono fuori dal ciclo della vita, eppure sono ancora lì, presenti, con un loro significato che, sempre ricor­dando Eraclito, è nelle sue linee generali il ciclo vita-morte-vita. Lavandini che a malapena si ricordano di essere stati bianchi e in cui sgocciola acqua, jeans strappati, cicche e pacchetti di sigarette abbandonati sulla strada, l’ombrello rotto, il giornale stropicciato (e l’elenco potrebbe continuare a lungo) non sono gli oggetti abbandonati di una critica alla società dei consumi: sono la nostra vita, sono parte integrante della nostra esistenza.

Lo dico in altro modo: gli oggetti in Antonio Tonelli sono “abbandonati” nel significato di essere in balìa di qualcosa o di qualcuno, sono cioè in potere di altro e/o altri, ma sono, quindi vivono, esistono.

Le stesse figure di proletari (stupendi il Giovane che si lava, 1981, e Il ragazzo dell’orto, 1983), gli strumenti del lavoro manuale (La colazione sul bancone, 1979), gli orti di periferia (Gli orti in fondo al quartiere, 1983, ma anche Il muro dell’orto, dello stesso anno) e infine le case popolari come nello stu­pendo La grande casa di via Giusti (1981) non portano a un’interpretazione politica e, ancor meno, esclusivamente politica. Sarebbe riduttivo e presup­porrebbe in Antonio Tonelli una pittura che si regge su simboli e metafore, mentre la sua è una pittura iconografica e l’iconografia nulla ha a che spartire con i primi due, anche se, ben lo si comprende, non è questa la sede per ulte­riori considerazioni sull’argomento.

I minori, nella scala sociale e nella scala consumistica, sono portatori di valori e in particolare di un valore, la vita, proprio nel momento in cui sembrano ai margini: gli uomini dallo stile di vita ufficialmente proposto come modello, e le cose dal ciclo dei consumi. Uomini e cose hanno lo stesso destino, questa la lezione di Antonio Tonelli.

Per altro il tragitto, che porta ai grandi cicli della sua produzione, segue ne­gli anni Sessanta due strade, o almeno così a me pare. Da un lato l’indagine sul paesaggio, sull’esterno, e Milano è il centro non unico, ma certamente prevalente. Del 1959 è Quartiere di Milano e del 1965 Casa in costruzione in cui è forte il richiamo a Fernand Léger, ma interessante è anche Paesaggio della Lunigiana del 1960: in queste opere è evidente la ricerca cromatica e di riflessione sulla superficie della tela. Dall’altro l’uomo come soggetto lo porta prima a una notevole vicinanza con la scultura (Testa verde e Testa ros­sa, rispettivamente del 1969 e del 1970), per culminare nel 1971 con la serie dei Viaggiatori spaziali: l’essenzialità del tratto e della figura sono qui le note dominanti.

Con questo apprendistato, con questo bagaglio e con l’intenso triennio 1971-73 in cui attraverso il disegno dai tratti leggeri ma alla ricerca dei particolari fissa il proprio mondo pittorico – con tutto ciò Antonio Tonelli approda al suo modo di lavorare per cicli.


Le opere “d’occasione” e l’arte sacra

Sempre per non dimenticare il vizio del critico di classificare, si può parlare tra il 1974 e il 1979 di piccoli cicli, nel senso che si snodano in un arco tem­porale limitato e su un numero di opere limitate, a cui segue la stagione dei grandi cicli.

La valigia di cartone (1976), icona della nostra storia recente, può riassumere il ciclo su L’emigrazione (1974-1979), mentre un altro allora attuale tema sociale è affrontato nel ciclo dedicato al sindacato, Le 150 ore. In Il grosso martello (1975) e in La chiave a rullino Le 150 ore (1977) gli strumenti di lavoro e il libro, cioè la nuova conquista sindacale, campeggiano su un tavolo di lavoro. Antonio Tonelli è attratto in questi lavori da quello che si può definire un fermo immagine: nel loro insieme gli oggetti comunicano una realtà che è una tranche de vie, ma lo fanno non nei termini della descrizione, semmai dell’evo­cazione, per cui i soggetti di quel vissuto non sono nel quadro. Sappiamo che ci sono, che esistono e, al più, li possiamo pensare come reificati in quegli stessi oggetti, ma non li vediamo.

La conferma viene dal terzo di questi cicli, dal significativo titolo Personaggi “elementari” (1974-79), e non nascondo la mia predilezione per Bucato di fine settimana (1978) che presenta un grande equilibrio formale e cromatico. Ma anche La colazione di mezzogiorno (1975) e Camicia a righe sulla sedia (1977) rendono appieno quel vissuto a cui accennavo.

Sempre a questo ciclo appartiene Omaggio a Carlo Levi (1979), un quadro “complesso”, congiungimento ideale tra la gente del Sud e del Nord, con sullo sfondo accennate le colline di Aliano, il tipico muretto di pietra delle campagne, un piatto coperto da un secondo piatto in cui idealmente possiamo immaginare sia tenuta al caldo della pasta, il tubetto di colore, dei pennelli e un libro di Montaigne, uno degli autori preferiti del medico-pittore-scrittore.

Per altro il riferimento a Carlo Levi permette di avvicinare un genere che Antonio Tonelli frequenta con una certa costanza e assiduità per tutta la sua carriera: la ritrattistica.

Un genere oggi poco praticato, ma che, non va dimenticato, ha fatto grande la pittura lombarda e che viene qui sviluppato secondo due prospettive. A volte la persona è ritratta quale parte integrante di un mondo di oggetti, quasi sempre in uno spazio chiuso; altre volte il volto, e soprattutto lo sguardo, cat­turano l’attenzione del pittore e sono il veicolo per la definizione del soggetto. Lo sguardo quasi ironico di Franco De Faveri (2006), la leggerezza sul volto di Rossana Bossaglia (2004), lo sguardo fiero di Francesco Speranza (2005) e quello buono e al tempo stesso disincantato di Mario De Micheli (2004), insie­me a molti altri tra cui la moglie Pina e i figli Luca e Giordano (tutti del 1988) segnano una sorta di vocabolario fisiognomico-sentimentale.

Un esempio del primo tipo di ritrattistica è Un pomeriggio nello studio, un trittico datato 1984-87 per il ventennale della Galleria Ciovasso di Milano, in cui al centro c’è una Grande natura morta (Omaggio a Renato Guttuso) e i due laterali dal titolo Un pomeriggio nello studio presentano sulla destra due figure, e una è un autoritratto, e sulla sinistra altre due figure, una delle quali è la moglie Pina.

La mia insistenza sul lavoro di Antonio Tonelli per cicli non deve tuttavia far dimenticare che alcune opere, e certo non secondarie, nascono da occasioni particolari e, per altro, sempre sul filo rosso della storia e della sua attualità. è il caso del grandioso, non solo per dimensioni, L’albero della libertà (1989) sulla rivoluzione francese per una rassegna itinerante dal titolo Ça ira, o dei due coloratissimi, quasi un omaggio anche cromatico, L’impossibile sogno di Chauhtemoc (1991) e L’alabarda sacrilega (1992) per la Rassegna d’arte contem­poranea per il V centenario della scoperta dell’America.

Per il Museo Parmeggiani di Renazzo di Cento (Ferrara), sul tema della Madonna del Prato di Giovanni Bellini, Antonio Tonelli compone La madre (2001) che nell’intento dell’autore voleva mettere a confronto la povertà, in primo piano, e le città della ricchezza sullo sfondo, ma che diventa tragica­mente profetico. Le due torri in disfacimento sullo sfondo richiamano le Twin Towers e… non è ancora l’11 settembre 2001!

La figura di Madre Teresa di Calcutta che campeggia nel quadro ora citato, consente di avvicinare un filone che non si sviluppa come ciclo autonomo e compare intorno alla fine degli anni Novanta del secolo scorso: l’arte sacra. Si tratta di un avvicinamento che ha le sue radici, per ammissione dello stesso pittore, nel ripensamento della figura della madre, “fervente cattolica ma non bigotta”.

Quello che qui importa sottolineare è come Antonio Tonelli non rinunci alla propria iconografia, ma anzi la usi come richiamo storicamente eterno, cioè sempre presente nella storia dell’uomo, di una dimensione altra, che supera la storia terrena.

Mi spiego. Nella Prima stazione della Via Crucis (2009) per il Museo del Ghisallo di Magreglio (Como), la Crocifissione non è un evento consegnato al passato che si è verificato una volta e non si ripete più. All’opposto, è un even­to eternamente e quotidianamente riproposto nella storia umana, e Antonio Tonelli lo fa inserendo nel gruppo di chiodi pronti per la Crocifissione una vite, il segno di una condizione umana di dolore. Insomma, un’attualizzazione della Crocifissione che è anche qui e ora.

Oppure si veda il Dittico per la Passione (Il chiodo della Passione I dadi bla­sfemi, 1998-2003), che può essere definito minimalista, dove non c’è nulla di ridondante: un chiodo piantato in un’asse di legno nel primo quadro e una veste e i dadi nel secondo.

E che l’essenzialità sia il filo conduttore della produzione sacra emerge anche nello stupendo All’ombra della Croce (2004), per la mostra Nel segno della croce a Castano Primo (Milano). Anzi, si può parlare di una vera e propria esaltazione della sua iconografia: sullo sfondo l’abbozzo di una croce e una corona di spine, chiodi, una tenaglia e in primo piano del pane e un bicchiere con vino. Il racconto evangelico e il racconto quotidiano della vita dell’uomo si incontrano in un equilibrio formale e cromatico davvero interessanti.

I grandi cicli

La fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo segnano l’avvio della stagione dei grandi cicli, primo fra tutti quello del Racconto urbano in cui Antonio Tonelli coglie quegli aspetti umili della quotidianità che sono le im­magini dei nostri ricordi del tempo: L’armadietto verde e la Camicia a quadri, entrambi del 1980, forse meglio di altri quadri illustrano quella storia minore che il pittore sente come sua. Non in modo sentimentale, semmai come parte­cipazione razionale all’autenticità del vivere.

E le cose prorompono nel ciclo successivo, Orti di periferia, dove vengono proposti non gli orti come visione d’insieme, ma singoli oggetti, Lo zucchino verde (1982) o La vasca da bagno nell’orto (1983) per finire con La sedia gialla nell’orto (1985-86) che forse oggi si può interpretare come un anticipo della sua rivisitazione di Van Gogh. L’orto di Antonio Tonelli è paradossalmente il luogo dove l’uomo c’è, è passato e ha lasciato oggetti che ora in un apparente caos riposano.

La morte si affaccia, non solo nel titolo, ma in diversi quadri nel ciclo seguen­te: Nature morte nella metropoli. Valgano per tutte le opere Il galletto sgozzato (1989) e Interno 3 (1994) dove in primo piano troviamo un coniglio scuoiato. Semmai in questo ciclo, forse emblematicamente riassumibile in L’angolo dei rifiuti del 1986, Antonio Tonelli ribadisce come la morte non sia annientamen­to, disfacimento, ma sia un momento dignitoso proprio nel senso di essere degno nell’eterno ciclo vita-morte-vita. Tutti gli oggetti, dalla Pantofola rossa (1985) al Cappellino blu (1986) alla Verza sul tavolo (1990), sono presentati nella loro interezza, nella loro unità, quasi che il tempo, che pure incombe (e i toni scuri degli sfondi ci rimandano a questo telos uniforme), il tempo, mi pare, sia una condizione esterna, qualcosa di effimero, che non intacca la sostanza delle cose, vale a dire la sostanza della realtà.

È a questo punto che avviene quello sviluppo quanto mai interessante cui facevo cenno in apertura. Il dolore viene in primo piano e a partire da I nostri giorni difficili gli oggetti inanimati tendono a lasciare il posto agli esseri, vegeta­li e animali, della natura. Immagini potenti pur nella sobrietà e nell’equilibrio che, ormai lo si è capito, è una delle cifre distintive della pittura di Antonio Tonelli. Il dolore come dimensione presente del micro e del macrocosmo è La morte dell’albero (1986) quando la scure infierisce sul tronco, è L’aquila insidiata (1987) con un gioco stupendo fra l’accetta di un uomo invisibile e gli artigli dell’animale, è la bocca spalancata del lupo in Legittima difesa (1994), fino al significativo titolo Gli artigli del bosco (1994) dove è proprio l’intreccio di radici e rami a dare il senso di metamorfosi implicito nel titolo. Sia chiaro, non mancano gli oggetti, e Natura morta sotto l’albero (1993) con l’accumulo di rifiuti alla base del vegetale lo conferma.

Ma lo sviluppo c’è. Fino a questo momento le immagini di Antonio Tonelli volevano ri-specchiare la realtà e il figurativo è stato il tramite per trovare quell’insieme di oggetti che, lì per caso in quel tempo e in quello spazio, dan­no senso alla realtà stessa. In questo ri-specchiamento Antonio Tonelli fissava, fermava la realtà e teneva ben distinti i due momenti del ciclo vita-morte.

Questa frattura viene meno e la vita come lotta, movimento, fluire continuo entra nell’opera e si gioca lo spazio pittorico con la morte. In diverse ope­re compaiono parole legate alla lotta (Combattimento di galli, 1995-96), ma soprattutto il movimento circolare prende il sopravvento sulla disposizione pensata in termini orizzontali o verticali, comunque più rettilinea, della pro­duzione precedente. Sia le figure sia la pennellata guidano l’occhio proprio a percepire il movimento circolare e i quadri tendono a un accentuato mono­cromatismo proprio perché lo iato vita-morte è caduto. Giornali nel paesaggio 2 (1996), Girasoli, tubi e valvola (1997) possono essere presi quali esempi, perché fin dai titoli non cambia il mondo del pittore, gli oggetti ritornano (e si pensi appunto ai giornali), ma ora è cambiata la prospettiva.

Ed è sul terreno della vita come lotta, almeno io credo, che avviene l’incontro con il grande olandese nel ciclo I simboli di Van Gogh. I simboli ci sono tutti: dalla sedia impagliata (La sedia di Vincent, 1999) alle notti stellate (La costella­zione Vincent, 2000), ai girasoli (La danza dei girasoli, 2000).

è proprio quest’ultima opera che ci può guidare. Infatti, ai girasoli sullo sfon­do fa da contrappeso un piatto su cui giacciono pennelli e tubi di colore aperti: il lavoro è finito, siamo al dopo. La conferma viene da un’altra opera: L’alba di Vincent (2000), quasi enigmatica, in cui il cappello di paglia e la giacca sono appesi al cavalletto chiuso. Ma la domanda è d’obbligo: è il momento che se­gue una notte di lavoro, o l’alba è una nuova vita, senza il lavoro di pittore o con una nuova visione di tale operare?

Non c’è risposta, ma credo che, attraverso l’omaggio a Van Gogh, Antonio Tonelli abbia voluto fare i conti con se stesso, proporci una sorta di metapittu­ra personale. Ha voluto fermarsi (nel senso di riflettere, non del fare pittorico) e ha trovato in alcune immagini, il cielo stellato innanzitutto, la dimensione dichiaratamente universale, ma preferirei dire utopica, alla propria iconogra­fia. Si veda Il canto del gallo e dei colori (2003) in cui è facile il richiamo al leopardiano Gallo silvestre, archetipo della divisione tra luce e tenebre, e in cui i pennelli e i tubetti di colore aperti sono ancora in primo piano: ma è il cielo con un sole lontano che forse sta arrivando e i girasoli che volano (le no­stre idee? le nostre speranze?) ad aprire la porta verso un futuro che forse, per la prima volta, Antonio Tonelli ci presenta in una dimensione più personale, soggettiva, meglio, più intima, e proprio per questo ancor più oggettiva.

Nei cicli precedenti gli oggetti erano caoticamente e casualmente lì a darci innanzitutto la loro dimensione terrena; ora gli oggetti, decisamente meno numerosi, sono qui ma hanno già inglobato l’universale, il trascendente.

Gli oggetti sono La finestra sul cielo, come vuole un’opera del 2001, e la sal­vezza forse solo dal cielo può venire. Così ci dice L’angelo in ritardo (2002) che, appunto, troppo tardi arriva a togliere dalla mano di Van Gogh il rasoio, e se il dolore appare dunque una condizione inerente all’esistenza, è pur vero che un angelo c’è e la speranza è ammessa, anch’essa come parte imprescindi­bile della condizione umana.