Caro Vincent,

di certo non immaginavi neanche lontanamente la misera fine dell’arte nostra, altrimenti nemmeno l’altro padiglione aurico­lare sarebbe sfuggito alla tremenda azione del tuo irato rasoio. Vorrai scusare il tono scherzoso, ma è solo per un approccio benevolo… tanto sappiamo tutti che non sono certo stati i per­corsi e i destini dell’arte altrui a darti affanno, a renderti preda della tua nobile follia, quanto piuttosto l’ignobile emargina­zione operata nei tuoi confronti dalla società, e il conseguente fallimento dei tuoi rapporti umani.

Nella tua breve ma intensa traiettoria l’evoluzione del colore assumeva via via chiavi cromatiche sempre più accese, adatte a esprimere le tue prorompenti vibrazioni psicologiche. Così partivano dalla Provenza soleggianti e infiammati segnali: non disdegnando di raccogliere i germogli dei semi di Seurat, at­traverso le tue magiche manipolazioni del colore imprimevi a fuoco sul quadro vivide parabole di energia solare, anticipan­do così gli elementi del primo espressionismo, per esternare l’inquietudine e la protesta dell’avanguardia.

“Continuità, dunque, e mutamento, validi nel tuo caso e in tutto l’avvicendarsi dell’arte. Le eredità culturali vivono nella dinamica della storia, e attraverso le individualità degli artisti, che nella storia sono immersi e agiscono, si modificano anche radicalmente. La dialettica di questi processi storico-culturali è indubbiamente complessa, ma il rendersi conto della sua realtà è il modo più fruttuoso per aprirsi alla conoscenza del fenomeno artistico. Dunque, mutamento nella continuità, o meglio: rinnovamento nella continuità.” Sono parole di Mario De Micheli, dal suo libro del 1978 Le poetiche.

In tali circostanze risultava possibile, fino a ieri, interpretare e valutare i processi artistici di ogni epoca. Per la più parte di quelli di oggi, invece, il processo diventa problematico: sembra di ripartire dall’anno zero, con gli “operatori dell’arte” (vide­oartisti, fotografi, installatori di vario tipo, assemblatori ecc.) che si sottraggono alla dialettica storica, affidandosi esclusi­vamente all’improvvisazione e al non-senso, allo stucchevole e all’eclatante, spesso con l’aggravante che l’enorme quantità di ritrovati tecnico-scientifici di cui dispongono e che utiliz­zano senza il sostegno di una poetica autentica rende i loro prodotti incomprensibili e privi di anima, troppo simili fra di loro e disgiunti da ogni specificità di realtà locali o nazionali. Tutto sembra concorrere essenzialmente al sensazionalismo e alla spettacolarizzazione, con il risultato evidente di vanificare le funzioni intellettuali dello spettatore, distogliendolo così da possibili riflessioni critiche su importanti problemi quali, ad esempio, la fame nel mondo, il razzismo dilagante, la mortalità infantile nei paesi sottosviluppati, le donazioni di organi umani non sempre spontanee, lo schiavismo in forme attualizzate, i pericoli di nuove guerre ecc.

Sostanzialmente la responsabilità di tutto ciò credo non si possa attribuire a qualcuno in particolare: ogni epoca è carat­terizzata dal proprio pensiero filosofico, politico, letterario, e difatti “l’artista appartiene al suo tempo, vive dei suoi costumi e delle sue abitudini, ne condivide le concezioni e le rappre­sentazioni” (ancora De Micheli). Pertanto, se impoverimento del complesso culturale e spirituale vi è stato per tutto il secolo appena trascorso, l’attività artistica non poteva che subirne le conseguenze. Ma allo stesso tempo è altresì evidente come que­sto processo involutivo venga governato da un impero dell’arte formato da determinati mercanti, collezionisti, galleristi, cri­tici, curatori, direttori di musei, media, addetti ai lavori vari che, in funzione del proprio interesse, attraverso una scaltra regia operativa, stabilisce quale sia l’arte protocollare e quali gli artisti da riconoscervi, riservando loro molteplici possibilità espositive e di mercato. Piuttosto miserella la situazione, vero? Ma purtroppo, credo, maledettamente reale.

E dunque, caro Vincent, quali saranno i destini dell’arte no­stra? Non è facile dirlo. Più per ostinato ottimismo che per realistica previsione spero in una ragionevole inversione di tendenza; ma se ciò non dovesse avvenire, parafrasando Clark Gable in Via col vento, mi viene spontaneo dire: “Francamente me ne infischio!”

Un caro saluto.

Antonio Tonelli, 19 settembre 2001