Presentazione della mostra personale alla Galleria Ciovasso
Una limpida narrazione per immagini, pensosa e assorta, carica di una sottile e sotterranea tensione. È la sintesi telegrafica del giudizio che si può dare di questi ultimi lavori di Tonelli, maturi ormai di una professionalità senza ombre, di una loro interna prestanza, di una suggestiva sicurezza del dipingere. La sua visione dell’immagine, infatti, insieme ai suoi mezzi espressivi, dimostra qui di aver continuato a crescere in questi anni di solitaria operosità e di essersi ulteriormente messa a fuoco sui propri più interni motivi di tensione poetica.
Tonelli non è un pittore cerebrale, un pittore freddo tutto teso a dar forma e sostanza a ragionamenti, idee, giudizi, e neppure è pittore caldo, interessato solo ai propri privati fantasmi, all’emersione impetuosa della propria interiorità emotiva. Direi, anzi, che Tonelli è solo pittore dell’occhio: pittore-pittore. Che, in altre parole, egli persegue nel suo lavoro l’obiettivo (apparentemente meno gratificante) di dipingere soltanto ciò che vede intorno a sé, di andare au motif come dicevano gli impressionisti.
Ma è appunto qui, nelle pieghe e nelle circostanze di questa sua scelta contemplativa, che risiedono le radici dell’attuale maturità delle sue opere e che si definiscono, inoltre, le ragioni della loro affilata evidenza, del loro fascino tranquillo.
Perché di fronte a queste vedute di orti urbani (e Tonelli ne ha di bellissimi proprio sotto le finestre di casa sua, alla periferia milanese) e di fronte al loro pacato silenzio, all’assorta e minuziosa descrizione che penetra addirittura tra le porosità più minuscole degli oggetti e delle superfici, c’è soprattutto uno straordinario trasporto poetico, una intensa adesione alle cose e ai sentimenti relativi alla dimensione quotidiana dell’esistenza: una dimensione che si nutre di nettezza e di pulizia morale, di ansia di comprendere fino in fondo (fino alla sua più intima tramatura) la vera consistenza della realtà che ci circonda, che ci connota, che ci definisce.
Qualcuno potrebbe, forse, parlare di “verismo”: nulla di più sbagliato, di più lontano dal risultato effettivo di questi lavori, così come sarebbe altrettanto fuorviante pensare, per Tonelli, a una qualche traduzione nostrana dell’iperrealismo. Niente di tutto questo. C’è qui, invece, semplicemente la pittura. La pittura come attività e intensità palpitante della mano e, insieme, dello spirito, come lente esatta della poesia, come assoluta concentrazione della propria coscienza d’esistere.
Questi campicelli con i loro oggetti sparsi e consumati, queste foglie, queste radici, queste ruggini trascolorate dal tempo e dalle stagioni, quella figura di schiena colta nel riposo, quel germinare immobile di microscopiche rugosità, tutto è apparentemente vero, esatto, icasticamente preciso eppure, anche, tutto è trasfigurato fino in fondo, fino alle più interiori sostanze: è dilatato in una tensione crepitante, suggestivissima. Siamo di fronte, insomma, a qualcosa che è oggettiva e soggettiva al tempo stesso, espressione d’una constatazione e, insieme, d’una interpretazione. Qualcosa che riassume e coniuga in sé i termini della consapevolezza dell’esistere e giunge a farlo, appunto, con grande efficacia e fascino, sull’unico terreno possibile per questo fruttuoso intreccio: sul terreno dell’immagine e della vera poesia.
Giorgio Seveso – Milano, novembre 1983