In questi ultimi anni di profonda crisi sociale, in cui l’uomo appare come inviluppato in un’abbruttente crisalide di inerzia, di smarrimento e di paura, difficile, se non improba, diventa la funzione dell’artista nella società.

Molto sovente, sia in letteratura che nell’arte, ci imbattiamo in prodotti di esigua consistenza tematica e/o in estremi quanto grotteschi giochi d’evasione, orchestrati da velleitari epigoni di correnti ormai prosciugate della loro iniziale spinta innovatrice e di rottura.

Queste visioni del mondo, malate di ipertrofia soggettiva e/o oggettiva, nel senso che si muovono o in un esasperato solipsimo, che sconfina nell’ineffabile, oppure conferiscono ai loro riflessi estetici un oggettivismo tutto epidermide scorza, pressoché vuoto di contenuto, sembrano essere lo specchio frantumato di individui che hanno perduto quasi tutti i legami con il tessuto sociale in cui vivono, con gli altri e con la loro propria coscienza. Eppure, nonostante questa cappa che grava come un coperchio sugli uomini, isolandoli gli uni dagli altri in alienanti compartimenti stagni, nonostante l’ardua possibilità del singolo di entrare in un rapporto dialettico con l’oggettività, arricchendo in tal modo, la sfera della propria soggettività, vi sono degli artisti che riescono a testimoniare questo nostro tempo di impotenza, di vacuità e di ignavia, e lo fanno innestandosi nell’inesauribile solco del realismo.

Uno di questi “testimoni” è, a nostro avviso, Antonio Tonelli. Accostandoci alla sua produzione, che copre la parabola di oltre un ventennio, si ricava la netta percezione di trovarsi di fronte ad un pittore coerente e vitale, acuto e sostanzioso.

Egli ha sempre aderito alla figurazione, ma non si è mai adagiato in moduli espressivi statici, si è al contrario e progressivamente impadronito (sia attraverso l’approfondita indagine ed analisi del realismo classico – in particolare di Courbet – e dell’impressionismo – soprattutto per il decisivo apporto formale che ha dato all’arte contemporanea questa corrente -, sia tramite un’accanita ricerca di segno e di colore nell’elaborazione della propria esperienza in fieri) di veicoli formali sempre più connotativi ed idonei per diventare indissolubili gusci del nocciolo della sua Weltanschauung.

Partito da una paesistica e ritrattistica dalle gamme calde e soffuse – un impressionismo alla Mafai per intenderci -, dove la commozione lirica, seppur trasparente e fioca, era ancora permeata di pizzicati effondenti una romantica melanconia, ma in cui già, quantomeno per taluni soggetti sulla tematica del lavoro, stava germinando questo suo inconfondibile dettato realistico, si è poi spostato, anche se solo incidentalmente, in una dimensione dalle feroci quanto polemiche impennate espressionistiche al limite del surreale.

Ma l’humus che stava sedimentando in lui aveva bisogno di un linguaggio semplice e diretto, pastoso e disadorno, e lo ha costretto a ritornare in un territorio nel quale disegno e cromia, depurati da malesseri decadenti e da concitazioni deformanti, riacquistassero una valenza etimologica sostanzialmente definita, pur nella possibilità dilatante dei semantemi nell’accordo intrinseco degli assunti.

E’ scaturito così un ciclo di dipinti, che rispecchiano taluni degli aspetti più tipici della nostra contraddittoria civiltà industrializzata: dal “mondo del lavoro” alla “vecchia Milano proletaria”, dalla “Milano di periferia” agli “orti urbani”, via via sino alle recenti opere tuttora in elaborazione, che tendono a riprodurre alcune facce drammatiche del convulso connettivo metropolitano (il consumismo, la droga, la prostituzione, la disoccupazione), usando come voce narrante di tale itinerario la strada, che pare diventare un metaforico trait-d’union tra io pubblico e privato nella stratificata dinamica dei fenomeni sociali.

Questi macerati nuclei tematici, si fondono, a nostro parere, in un unico filo conduttore; ad un lessico di immagini che possiedono la pacata, anche se in certi casi amara, cadenza dell’epicità. Narrazione, resa palpitante da una tecnica compositiva sofferta e plasmata sino in fondo: gli oli – quasi tutti su masonite – sono il risultato di una lenta e laboriosa sovrapposizione di strati materici, ai quali fa da supporto un disegno agile e conciso nella sua armonica plasticità. Nonostante questo rovello formale, però, i lavori finiti risultano freschi, immediati, come percorsi e vivificati da un’energia che fa vibrare le campiture, quasi siano mosse da un sotterraneo soffio di vita.

Tonelli pare che narri i tanti episodi della quotidianità, con una compartecipazione che cerca di rendere più umano persino l’atto più consuetudinario: il lavarsi, la lettura del giornale, lo zappare l’orto; più nobile, perché strumento del lavoro e quindi della sopravvivenza, anche il più umile degli utensili: il martello, la tenaglia, la zappa.

Spesso, egli lascia che siano il paesaggio e le cose a fare le veci dell’uomo; ma ogni oggetto è lì che ci parla dei azioni, di situazioni, di conflitti sociali talvolta tragici nella loro cruda verità storica; ogni componente della natura, ogni arnese sembra trasudare umanità, tanto stretto appare il rapporto tra la fisicità dell’uomo e dell’ambiente da lui plasmato, e che a sua volta lo costringe ad aggiungere un granello di esperienza in più, di crescita nel faticoso cammino che la storia deve percorrere per dominare le forze della natura e per trasformare questa nostra epoca, costruita sul privilegio di pochi e sulla miseria di molti.

Una pittura, in ultima analisi, questa di Tonelli che ci rammenta – come avevamo osservato in un’altra occasione – la spoglia lirica di Brecht, che conferisce alla parola il valore semantico più compiuto, come estraendola dal pantano dei significati della greve ambiguità dell’estetica dominante. Ne viene fuori, nell’uno e nell’altro, un distillato di immagini che, nel succo della poesia, portano a compimento un florilegio di sostanze di vita, il cui profondo significato umano e sociale stimolano ad un recupero dell’uomo-natura, attraverso le tappe obbligate della lotta per il bene comune della specie.

Gianni Pre – marzo – aprile 1986 – Rivista Alla Bottega – Milano