Il “realismo trascendente”. Una mostra di Antonio Tonelli alla Ciovasso
Una domanda che viene spontanea a chi si pone non solo a vedere, ma a contemplare le opere di Antonio Tonelli, specie le ultime, dedicate ad una originale rivisitazione di Van Gogh (una prima del ciclo si è avuta alla Galleria Armanti di Varese, la Ciovasso le ripropone con un arricchimento, peraltro assai significativo: L’angelo in ritardo), è se l’etichetta del “realismo esistenziale”, così bene acclimatato a Milano dove l’artista vive e opera, gli sarebbe applicabile.
Ad una prima recensione del materiale offerto, parrebbe di sì: consideriamo le opere alla luce delle loro componenti primigenie, spazialità e temporalità. La differenza essenziale tra la pittura “realista” e la “astratta” si coglie nell’assenza di ogni temporalità nell’astrazione (si pensi a Mondrian, in cui tale assenza è addirittura programmatica: la temporalità viene rifiutata nella sua poetica in quanto compromessa col “tragico”, di cui il bello si vuole la negazione) mentre la spazialità astratta ha carattere autoreferenziale. Nella pittura “realista” invece, sia spazialità che temporalità hanno carattere e illusionistico e referenziale: ogni realismo si ambienta in una scena comunque rappresentata, ha sempre carattere di evento per quanto rattrappito o “cancellato” (si pensi a Bacon).
Tali considerazioni, per quanto elementari, sono preziose in quanto ci permettono di ascrivere Tonelli inequivocabilmente al realismo.
Troviamo in Tonelli, infatti, sia una spazialità chiaramente caratterizzantesi come referenziale e illusionistica (le opere ci presentano “oggetti” ben individuati: ritratti, sedie, girasoli, sopra tutto, finestre e stelle), sia una temporalità referenziale essa stessa: il tempo che Tonelli ci propone alla contemplazione è, in modo che preciseremo, il “tempo di Van Gogh”.
Qui interverrebbe però l’obiezione prevista più sopra e cui intendiamo parare: prendiamo la varia oggettualità tonelliana, prima di tutto i due “ritratti” di Van Gogh, o le sedie, o i girasoli, o il cappello, l’ombrello, etc. Se questi “ritratti” e questi oggetti sono quelli di Van Gogh, è chiaro che non possono essere né veri ritratti (il modello ci è sottratto dal secolo intercorso), né gli oggetti che hanno appartenuto al grande maestro scomparso sono gli stessi. Non a caso Tonelli qualifica uno dei “ritratti” del predicato di “immaginario”, mentre tutti gli oggetti, sedia, pipa, cavalletto, girasoli, pur comparendo anche come veri “attributi” vangoghiani (La sedia di Vincent, per esempio), vengono in generale presentati in contesti che hanno carattere “perifrastico”, come perifrastici sono i titoli dei quadri che li ostendono (Natura morta nello studio: “studio” di chi? c’è per terra una scarpa da ginnastica sicuramente non vangoghiana, uno sgabello e dei tubetti di colore temporalmente ambigui, anche se la pipa sarà vangoghiana). Tutte queste non sarebbero però vere obiezioni contro l’etichettatura di “realismo”, perché proprio qui si potrebbe fare intervenire a operare la qualificazione di “esistenziale”. La componente di “derealizzazione” del “reale”, dovuta alla “idealizzazione” si riconduce, a ben vedere, ad un illusionismo in certo senso bidimensionale, non solo spaziale ma anche temporale. Più chiaramente: l’illusionismo, in Tonelli, non opera solo al livello della spazialità, ma anche a quello della temporalità. Che si abbia un illusionismo spaziale è inevitabile, visto che esso è inerente alla definizione stessa di “realismo”, che si individua in confronto all’astratto (lo dicevamo più sopra), proprio grazie alla sua referenzialità. L’illusionismo spaziale, in Tonelli, viene anzi sottolineato dal prospettivismo, discreto, depotenziato dalla frequente “cancellazione” degli sfondi (spesso coperti da una densa ombra) – ma pure presente: i quadri di Tonelli non sono “piatti”, cioè bidimensionali, come potrebbero ben essere.
A tale illusionismo spaziale, dunque, si sovrappone un illusionismo temporale: il “ritratto” è, appunto, immaginario; gli oggetti, invece, si collocano in una iridescenza temporale che mescola le date, ibridando il vissuto evocato, vangoghiano, con quello concreto del pittore Tonelli che lo ricrea e rivive. Si noti che con tutto ciò, appunto grazie alla ibridazione, non ci troviamo nell’ambito di una pittura a carattere “storico”. Qui, in Tonelli, se abbiamo l’evocazione di un vissuto altrui, tale evocazione non è quella “fredda”, cioè oggettiva, meticoloso-filologica, propria della storia programmatica (pensiamo, un esempio per tutti, a David), ma ha carattere “caldo”. Non è evocazione descrittiva, ma, verrebbe da dire, “vocativa”, quasi nel senso della seduta spiritica: l’oggetto che “compare”, non documenta, o semplicemente mostra, ma materializza una densa presenza, tutta pregna della vita altrui, che è quella di Van Gogh, quella dell’Arte.
Tutto ciò, si direbbe e si dirà, si attaglia bene al “realismo esistenziale”.
Allora, la domanda che abbiamo posto in apertura ha trovato la sua soddisfacente risposta?
Un senso di insoddisfazione persistente dice qui: No.
Rivisitiamo la rivisitazione vangoghiana di Tonelli. E chiediamoci, cos’è, in che consiste questa rivisitazione? Mi pare che si possa applicare qui un concetto che è di casa nella critica letteraria, quello della “poesia della poesia” (che risale al romanticismo tedesco). Un esempio chiarirà la questione meglio di lunghe disquisizioni. Ezra Pound nei Pisan Cantos presenta la morte a Piazzale Loreto di “Ben” – Benito Mussolini; supponendo che a un certo punto vi avesse un de profundis, non avrebbe ottenuto lo stesso effetto che si avrebbe inserendo nel contesto tragico, per es. un “buongiorno signori”. L’effetto sarebbe certo di banalità voluta, ma mancherebbe, appunto per questo, di quelle densità e ricchezza di vibrazioni religiose di cui sono cariche le parole de profundis.
In questo senso vorrei definire la rivisitazione vangoghiana di Tonelli come “pittura della pittura”. I “residui e lacerti” (di cui parla Rossana Bossaglia nella bella presentazione al catalogo) non sono semplici citazioni di realtà, sono quello che più sopra, nel mio linguaggio, ho definito come “evocazioni vocanti”. Quasi una finestra che dal presente Tonelli apre con violenza sul passato vangoghiano per tentarne il faticoso, ma vittorioso, recupero. Quello che una fredda pittura storica non ci darebbe, lo abbiamo qui, attraverso l’immaginario tonelliano: abbiamo l’aura, l’atmosfera dello studio di Van Gogh, sentiamo l’odore del tabacco della pipa, sentiamo la sedia spagliata scricchiolare.
Ed è con questo che approdiamo alla definizione della particolare qualità del realismo di Tonelli proposta nel titolo di queste brevi note: realismo trascendente. Non si dice tutto, parlando del “realismo” di Tonelli, qualificandolo di “esistenziale”: l’esistenzialità del realismo mira al recupero di una vibrazione “in più”, che si sovrappone alla referenzialità storica, e viene a svelare la radice riposta di un dolore insieme individualissimo ed universalmente umano che sta “sotto” o “dietro” l’apparenza fenomenica.
Se tale componente certo non manca in Tonelli (il che giustifica la domanda che guida la nostra indagine), non è male dare uno sguardo anche al come l’esistenzialità si concretizzi. E questo come è l’effetto che vorrei dire di perenne “sfondamento” proprio di queste opere. Uno “sfondamento” che si concretizza in tutta una gamma di modi. Guardiamo il quadro La finestra sul cielo. La finestra che si apre sul cielo stellato, si apre sul mondo inteso in senso forte: tale “mondo” è il cosmo stesso, evocato, o “vocato”, non tanto attraverso un simbolo, quanto attraverso una sineddoche a carattere metafisico (ricordiamo che la sineddoche pone la parte per il tutto: il cielo stellato qui, più che un rimando criptico al cosmo, è il macrocosmo stesso). La finestra non è statica, ma colta in movimento, viva: dall’interno la vediamo infatti spalancarsi verso l’esterno. A tale movimento centrifugo corrisponde un movimento opposto, centripeto: quello dell’esterno che si precipita all’interno. Tale secondo movimento viene suggerito dalla metamorfosi stellare (come vorrei dire): le lontane purissime stelle, gialle gialle, si trasformano nei girasoli che entrano, in tal modo, non dalla terra, ma dal cielo, cadendo nello studio di un pittore, Van Gogh-Tonelli. Che si tratti di uno studio di pittore lo vediamo dal fatto che il lato inferiore della finestra è dato da una tavola che accoglie le stelle-girasoli ed è imbrattata di giallo e di rosso che escono da due tubetti mezzo schiacciati. E notiamo allora che questi colori sono i co-protagonisti della metamorfosi, sicchè la metamorfosi della forma diventa egualmente quella del colore: il giallo della stella si trasforma per gradi in arancio e poi in rosso. Questi non sono solo i colori dei due tubetti schiacciati sulla tavola, ma anche i colori di cui la tavola è coperta, e poi i colori della intelaiatura della finestra (questa è in certo modo sospesa nel vuoto, o che per davanzale ha la tavola giallo-rossa e al di sotto la continuazione del cielo stellato).
Insomma, abbiamo una continua posizione di un confine, di un limite, che è il confine tra terra e cielo, interno ed esterno, al di qua e al di là; un confine o limite che continuamente viene poi negato e oltrepassato: l’interno, segnato dalla finestra, nell’atto stesso in cui viene posto, viene cancellato e negato, diventando, essendo, nello stesso modo, l’esterno delle stelle, del cosmo. L’esterno attraverso la pioggia delle stelle, non solo si interiorizza perché entra nella stanza (che di per sé è una non-stanza: la finestra è sospesa nel vuoto), ma, trasformandosi nei girasoli, diventa qualcosa di terrigno, di terrestre come è terrestre il fiore. Ma questo stesso fiore è poi il girasole, il cui carattere astrale è iscritto nel suo stesso nome: un fiore che è più che semplice fiore, è fiore solare, stellare. La catena dei significati, delle metamorfosi, così, si allunga: l’esterno delle stelle che diventa interno nel girasole, appunto nel girasole torna ad essere proiettato “fuori”, nel cielo.
Un’altra modalità di questa gamma la troviamo nei quadri che non presentano apparentemente che meri interni. Si veda per esempio La sedia di Vincent. Il centro, un po’ asimmetrico del quadro è occupato dalla sedia spagliata e passabilmente squinternata di cui dicevamo più sopra. Cosa di più “terrestre” o anche “terra-terra”? Eppure in essa, nella mancanza (la spalliera scassata) si inserisce subito l’altra dimensione, la dimensione altra, del mistero. Dalla sedia si allontanano strane orme, meteriali-immateriali. A terra, un oggetto quasi “cancellato”, in quanto confuso e confondibile con una varia cianfrusaglia (costituita dai consueti tubetti di colori, “lacerti” di giornali, ma anche dal cappello di paglia vangoghiano, in posizione defilata e tanto più drammatica) è pregno della dimensione della morte: è il rasoio, dalla lama ancora macchiata del sangue sgorgato dall’orecchio mozzo di Van Gogh. Abbiamo anche qua dunque un bagnasciuga ontologico, un oggetto quanto mai significante che si nasconde e defila, di cui quindi la carica di esistenza viene ambiguamente depotenziata, quasi nullificata.
Ancora: sulla parete di destra vediamo delle presenze, anche queste tra la realtà e l’ombra: vengono qui “vocati” qui ancora i girasoli, la cui natura “misteriosa” e “metamorfica” è data da uno stato sospeso tra realtà e parvenza, o anche sospeso: tra interno e esterno. Sul pavimento, infatti, a destra della sedia, abbiamo una specie di trave, un forte segno buio che non si capisce cosa propriamente “segni”: forse l’al di là, presente e ben presente nell’al di qua, l’al di là che sono i girasoli (il fiore cosmico, come dicevamo, che “evoca”, “voca” e insieme materializza il cielo), che si protendono verso l’al di qua, ma con presenza ambigua, tra la luce e l’ombra, la realtà e l’irreale dell’Assenza.
E’ questo insieme di “capriole” metafisiche di cui è pregno il dipinto (il dipingere, tutta la pittura) di Tonelli, nel suo perpetuo gioco tra presenza e assenza, che vorrei chiamare, come mi pare giustificato, realismo trascendente.
Franco De Faveri – aprile 2002 – Mensile di Arte Archivio