Se l’amico Giorgio Kaisserlian fosse ancora tra noi, certamente si compiacerebbe degli esiti conseguiti da Antonio Tonelli e della linea di sviluppo lungo la quale attualmente scorre il suo discorso pittorico. Kaisserlian stimava il giovane artista e credeva nel suo lavoro di ricerca, seguito per più anni in attesa che i risultati si concretassero in una convinta e chiara visione estetica. Il momento è giunto e Tonelli, che non ha avuto fretta nella sua lunga ed appassionata indagine, si fa avanti con le sue franche proposte tese sul filo di una figurazione nuova, impegnata sul piano etico e formale.
La vicenda artistica del pittore milanese trae da una vocazione giovanile che sboccia nel primo incontro con il colore nel ’52. Di qui le prime esperienze sulla scia di un postimpressionismo che non esclude soluzioni di tipo nuovo fattesi via via più incalzanti fino alla adozione del collage e del riporto fotografico. Era chiaro, tuttavia, sin da quel tempo un senso d’insoddisfazione – testimoniato anche dalle rarissime partecipazioni all’attività espositiva – che rallentava il ritmo operativo dell’artista.
L’incontro con Kaisserlian fu decisivo ai fini della presa di coscienza di una problematica già presente ma indistinta ed esitante nella determinazione del mezzo espressivo che meglio corrispondesse alla intuizione. Serio e puntiglioso, Tonelli ha continuato a lavorare approfondendo il suo mondo che fa perno sulla figura intesa come entità emblematica e campo di riflessione in rapporto alla condizione dell’uomo di oggi.
Sullo sfondo d’uno spazio che è vuoto, vertiginosa dimensione senza confini, le sue immagini sembrano ipotizzare modificazioni morfologiche non impossibili. Ma ciò non intacca né muta la sostanza spirituale dell’essere umano che, sebbene sottoposto alle minacce d’un ambiente aggressivo, innaturale, non abdica al ruolo che gli è proprio.
L’uomo, in rapporto con l’infinito, è qui considerato nella sua totalità. In questa atmosfera rarefatta, in cui tutto è ridotto a pochi elementi essenziali, qualsiasi dettaglio disturberebbe la verità della situazione messa a fuoco dall’artista. Nell’impatto tra l’uomo e la realtà che lo circonda, Tonelli va al di là di ogni facile psicologismo per raggiungere l’individuo nella sua intima solitudine, nella sua sofferenza, nella paura e nella curiosità ch’egli prova di fronte al vuoto cosmico. Il viaggiatore spaziale, che coraggiosamente s’avventura nei cieli, è lo stesso uomo sacrificato, modificato, che lotta sulla terra, in una città anch’essa modificata e deformata.
Spesso la figura umana è compendiata in una testa, isolata o in gruppo, simbolo dell’intelligenza soverchiante ogni altro sentimento, che ignora la delicata complessità dell’uomo. Teste che indicano, per converso, il dramma dell’isolamento, della degradazione di valori elementari e primordiali. Sembra che l’artista voglia dubitare che la civiltà sia una risultante umana.
Tutto questo Tonelli esprime con una sintassi cromatica decisamente caratterizzata. Pochi toni asciutti ed espressivi che mettono in rilievo forme stringate e ritagliate nello spazio. Le linee, che creano l’atmosfera ambientale, appaiono qua e là rotte, in spasmodica tensione; gli stessi tagli del quadro, piuttosto insolito, contribuiscono ad aumentare la carica drammatica al modo stesso della materia particolarmente elaborata e tormentata in determinate zone. Tra i temi più recenti una “Maternità” dai toni azzurro e rosa insolitamente teneri, che con bimbi disadattati e smarriti, mira a proporre il tema della famiglia su cui incombe la minaccia della disgregazione.
Si delinea così una circolarità speculativa che abbraccia tutto il presente momento storico nei suoi aspetti fondamentali: è qualcosa che trascende la denuncia per porsi interrogativamente di fronte al domani dell’uomo. Linguaggio coraggioso, inventivo, condotto su una struttura bidimensionale a larghe proposizioni cromatiche, che nulla concede alla piacevolezza, al gusto, certo il più aderente all’assunto di questo pensoso e sensibile artista proteso verso la piena realizzazione di se stesso.
Gino Traversi – ottobre 1971