Mostra personale al Museo Diocesano Francesco Gonzaga di Mantova
Roberto Brunelli, Felice Bonalumi, 30 agosto 2015
Quest’ampia antologia dei dipinti di Antonio Tonelli aggiunge un nuovo tassello all’ormai lungo elenco di mostre ospitate dal Museo diocesano Francesco Gonzaga, che come espone in permanenza capolavori d’arte antica ma anche opere di artisti viventi, così allestisce rassegne temporanee di classico impianto (ne sono esempi le due mostre in corso, entrambe patrocinate da Expo, una di ritratti dei Gonzaga e una sul tema del cibo) accanto ad altre sui più rappresentativi artisti d’oggi. Tonelli basta da solo a illustrare un ampio spettro della contemporaneità. In uno stile “leggibile”, di facile accesso per chiunque, egli sa offrire problematici paesaggi urbani e campestri, meditati ritratti, fantasiose visioni di mondi avvenieristici, richiami all’arte del passato (specie quella dell’evidentemente amato Van Gogh). L’intera produzione del versatile e fecondo pittore milanese è acutamente analizzata, anche in questo pieghevole, da Felice Bonalumi. Da parte mia vorrei sottolineare due aspetti. Il primo è costituito dalla insistita presenza, in tutto il percorso operativo dell’artista, delle “cose”, le umili, semplici, spesso trascurate quando non abbandonate cose d’uso quotidiano. E’ un tema apparentemente banale, che si direbbe non valga la fatica di raffigurarlo: ma non è così, sia perché rappresenta l’ultimo sviluppo di un filone che percorre l’intera storia della pittura, la cosiddetta “natura morta”, sia perché invita a meditare sull’uso (e abuso) di quanto struttura il nostro mondo. E a proposito di abuso, il secondo aspetto associa a queste nature morte le tele dagli inquietanti richiami ai rischi che va correndo il nostro mondo, sfruttato, calpestato negli uomini e nelle cose, insomma vittima di sfrenati egoismi che si ritorcono soprattutto a danno dei più deboli e in prospettiva delle prossime generazioni: vedo in questa denuncia la sintonia con Laudato sì, la coraggiosa enciclica da poco pubblicata, di cui i quadri di Tonelli per tanti aspetti potrebbero fare da illustrazioni.
Roberto Brunelli
Direttore del Museo diocesano Francesco Gonzaga
Il titolo di questa mostra di Antonio Tonelli, LE COSE E LO SPIRITO, riassume e sintetizza i poli della sua ricerca pittorica e trova chiara visibilità nel percorso proposto. Per una felice combinazione, infatti, gli spazi messi a disposizione dal Museo diocesano di Mantova portano il visitatore dal piano terra al soppalco, da una ricognizione fra le “cose” del nostro vivere quotidiano che hanno occupato gran parte dell’attività pittorica del Maestro alla produzione legata allo Spirito. Una ideale ascesa da ciò che è contingente, che è qui e ora, a ciò che E’ in quanto eterno. Cronologicamente i due poli si sviluppano in sequenza. Il primo comprende una lunga ricerca che, partita alla fine degli anni ’50, si sviluppa per cicli nei decenni successivi. Essa ruota intorno alla ricerca del senso delle cose materiali, degli oggetti che occupano la nostra vita, con un occhio a situazioni limite di marginalità ed è sostenuta e fa esplicito riferimento alla grande tradizione del realismo lombardo. Il secondo polo sviluppa l’arte sacra o, se si preferisce, l’arte con soggetti sacri e compare a partire dagli anni ’90 determinato da riflessioni su situazioni personali e da un più generale bisogno interiore. L’inizio di questa produzione è accompagnato dal ciclo profano dei Simboli di van Gogh che non esito a definire uno dei suoi migliori risultati (si veda a titolo esemplificativo L’angelo in ritardo, 2002) e che possiamo interpretare come il ponte di passaggio alle opere sacre. I due poli testimoniano la grande versatilità della pittura figurativa di Antonio Tonelli caratterizzata da una particolarità stilistica che anche questa mostra evidenzia: mentre nelle opere profane l’accumularsi degli oggetti riempie la superficie della tela (Il ragazzo dell’orto, 1983), all’opposto nelle opere sacre c’è minimalismo descrittivo in quanto gli oggetti raffigurati non sono cose, ma simboli di una storia che è di tutti e che in questi simboli si riconosce come presente anche nella contemporaneità. Si veda Dittico per la Passione (2003) in cui alle due tavole di legno, ideali bracci della Croce, si aggiungono da un lato un chiodo e dall’altro due dadi. Nulla di più, eppure, il testo evangelico è, se così posso esprimermi, presente proprio con la sua assenza.
Felice Bonalumi
Giornalista e critico d’arte