Dichiarazione poetica per il libro di Renato Valerio
Antonio Tonelli – Novembre 2001
I miei esordi artistici, attorno agli anni Cinquanta, sono stati caratterizzati dall’amore per la pittura degli impressionisti: la libertà di cui si nutrivano, il rifiuto di ogni convenzione accademica, un certo modo di dipingere, inteso come vero e proprio linguaggio pittorico, non potevano non identificarsi e compenetrarsi con la mia vocazione di estraneità accademica. Così mi dedicai per un po’ a studiare e riprodurre alcune loro opere: fu un periodo pittoricamente felice.
Ma i pittori, come del resto ogni comune mortale, rimangono inevitabilmente immersi nel clima politico culturale dell’epoca in cui vivono, tanto che i loro pensieri e le loro espressioni artistiche non possono essere da esso disgiunti. Nel clima, dunque, di accesi scontri ideologici, culturali e lotte sindacali, non sempre la felicità e la gioia di vivere degli impressionisti trovavano diritto di cittadinanza nell’ambito della mia coscienza civile. Sentivo che la mia vicenda personale e quella delle persone con le quali vivevo e lavoravo nei quartieri popolari di Milano poco avevano da spartire con le tematiche piuttosto effimere dei quadri che tanto avevo ammirato. Da qui l’origine della ricerca in varie direzioni, a volte anche contrastanti, attraverso diversi anni, per trovare un linguaggio pittorico atto a esprimere il senso di ciò che vivevo e che volevo rappresentare.
Dapprima, quando iniziavo un quadro non avevo disegni preparatori o altro materiale, ma solo un’idea, chiara come un disegno, ma pur sempre una semplice idea impressa nella mente e speravo che potesse essere sufficiente allo scopo. Inoltre non affrontavo mai due o più lavori contemporaneamente: rimanevo in estrema simbiosi con quello che stavo affrontando e il rapporto veramente esaustivo si completava con la fine stessa dell’opera. Ogni quadro nasceva da una semplice considerazione che aveva origine dal riscontro di qualcosa di concreto nella vita quotidiana mia o di altri. Tutto, però, risultava frammentato ed estemporaneo, tanto che a un certo punto avvertivo la necessità di dare un ordine alle idee e al lavoro conseguente che veniva così suddiviso in periodi legati a temi specifici sviluppati in tempi successivi. In tal modo i vari cicli, essendosi susseguiti per una trentina d’anni, rivelavano esiti pittorici piuttosto diversi poiché durante questo lungo tempo credo si sia verificato un processo progressivo di crescita e una presa di coscienza più risoluta nei confronti del mondo oggettivo che volevo indagare.
In questo primo periodo le tematiche erano rivolte al tormentato mondo proletario, al lavoro operaio, all’emigrazione e all’impegno sindacale; in una mostra del 1977 alla Galleria Ciovasso di Milano il critico Mario De Micheli nella presentazione del mio lavoro così si esprimeva: “È un colore magro, che usufruisce di pochi toni, essendo tuttavia dotato di una sua primitiva freschezza. Per questa loro costituzione elementare, per l’assenza di un descrittivismo superfluo, per il candore di cui sono espressione, queste immagini, questi personaggi non sarebbero dispiaciuti a Léger…” È certo, comunque, che fin dall’inizio avevo sempre cercato di stabilire un rapporto sincero con la realtà.
Attorno al 1978 mi sembrava che, mediante mezzi pittorici maggiormente consolidati, l’espressione complessiva risultasse più esplicita, con accenti pittorici più definiti. Questo periodo veniva denominato racconto urbano, nel quale intendevo indagare la Milano dei vecchi quartieri popolari, con le case di ringhiera e i muri scrostati dal tempo, con gli uomini che vi abitavano e vi lavoravano. L’inizio del ciclo successivo avveniva nel 1982 prendendo in considerazione gli orti che sorgevano numerosi nella periferia della città, spesso a ridosso di ferrovie, di tangenziali, di stabilimenti o di grandi edifici dove l’immigrato contadino, costretto al grigiore e alla tristezza di un lavoro di fabbrica ripetitivo, ritrovava il suo primordiale valore.
Poi, dal 1985, la mia attenzione si fermava sugli spazi marginali della città dove si accumulavano disordinatamente, per incuria e inciviltà dell’uomo, gli oggetti più disparati, insomma, i rifiuti urbani: tutto ciò che prima era stato usato quotidianamente e che poi, esauritane la funzione o la necessità, veniva abbandonato. Ogni cosa, in qualsiasi situazione, continuava per me ad avere un senso; anche nel bidone della spazzatura o nell’angolo dei rifiuti vedevo una continuità di vita, nulla era veramente esaurito, così poteva capitare che una scatola vuota, una vecchia scarpa, mozziconi di sigarette, siringhe sciaguratamente usate o quant’altro di più repellente continuassero ad avere un proprio impulso vitale.
A questo punto del mio lavoro mi sembrava inevitabile che il passo successivo dovesse esprimere come il degrado ambientale non fosse limitato alle sole zone metropolitane, ma all’intero territorio terrestre: il rapporto uomo-pianeta Terra si compendiava così in un atteggiamento critico di condanna verso il comportamento colpevole dell’uomo. Era questo il ciclo denominato I nostri giorni difficili, iniziato nel 1987, dal quale, comunque, intendevo far trasparire la speranza che l’uomo potesse riuscire quanto prima a conciliare l’esigenza inevitabile del suo progresso con l’inderogabile condizione di non autodistruggersi.
Eravamo attorno al 1997 e già da qualche anno, dapprima allo stato latente e poi in modo più definito, avevo cominciato a respirare un’aria di certa stanchezza intellettuale, di certo opportunismo politico, di certa indifferenza etico-sociale a tutti i livelli. Ravvisavo che gradualmente si estinguevano le pulsioni che prima avevano alimentato e sospinto lo spirito di collaborazione e solidarietà fra gli uomini: ognuno tendeva a racchiudersi egoisticamente e stupidamente in un proprio anfratto. Così era inevitabile che in tali circostanze mi si instaurassero dubbi, incertezze e ripensamenti: erano veramente deprecabili i giri di valzer al Moulin de la Galette, le “scostumate” colazioni sull’erba o le visite ai postriboli con Toulouse-Lautrec? Da qui l’inizio del recupero di una sorta di “libertà” forse di ordine etico oppure storico, filosofico o politico, ma che tuttavia mi dava delle sollecitazioni a sottrarmi dal particolare assetto mentale e spirituale che per tanti anni era stato il timone della mia “navigazione”. Non che una serie di libere riflessioni su Van Gogh fossero da ritenersi pretestuose o effimere, tutt’altro, ma almeno i conti venivano regolati in ambito artistico e, anche se ad ampia estensione, riguardavano comunque ansie, delusioni, angosce, sofferenze relative al grande personaggio che aveva dovuto misurarsi con l’indifferenza e la stupidità della società del suo tempo, che poi, a tutt’oggi, non è cambiata se non in peggio. Liberata così la fantasia, risvegliata la tavolozza, veniva data via libera al ciclo denominato I simboli di Van Gogh in cui, con estremo rispetto e ammirazione, pensavo sempre al grande maestro e poi, infine e a margine, un po’ anche a me stesso.
Questo, dunque, è il percorso che mi ha coinvolto eticamente e artisticamente per una quarantina di anni; ritengo questo mio impegno abbastanza esaustivo in rapporto al mio lavoro poiché in esso ha sempre prevalso il tentativo di capire i mutamenti e gli interrogativi posti dalla mia epoca cercando di interpretarla pittoricamente, a volte razionalmente, a volte emotivamente, ma senza enfasi né tendenze di moda e senza mai staccarmi dalle verità e dai valori fondamentali che regolano i ritmi della vita.